30 marzo 2005

Panchine

Ho passato la serata con Giordana, un frappè e una passeggiata in questo quartiere che troppo spesso snobbo, da cui voglio fuggire, e che invece stasera era come magico, si prestava alla perfezione ai discorsi che volevamo fare.
Abbiam parlato di amici che conosciamo, di cosa non va in loro, di quello che non ci piace, tanto per criticare un po', o forse perché ci sono davvero delle cose che non vanno, e che non ci riusciamo proprio a spiegare, ritenendoci persone normali.
E abbiamo anche parlato di cosa non va in noi, di cosa ci manca, delle nostre paure, delle amicizie che vorremmo, dello stare in gruppo che ci manca. E ci siamo detti che la colpa in fondo è della società, in cui tutto sembra proibito, in cui parlare con sconosciuti per conoscerli sembra una figura di merda, in cui non ci si deve mai aprire per non mostrarsi deboli.
Pensiamo di essere soli davanti a questi pensieri, ma è proprio in queste sere in cui ci si può confrontare apertamente con altri (e con Giordana non c'è bisogno di farsi scrupoli) che capiamo di essere in compagnia di tante altre persone che la pensano come noi. E si capisce ancora una volta di non essere gli unici cretini a pensare una cosa.
Parlavamo prima delle comitive che ci sono in questo quartiere, formate per lo più da coattelli e bori, comitive che però invidiamo un pochino, nel senso che invidiamo quel riferimento che hanno quei ragazzi nello scendere sotto casa e trovare altri amici, una certezza che avranno sempre.
Una certezza che noi (ma chissà quanti altri ragazzi come noi due) non abbiamo mai avuto, noi che siamo stati abituati a non vivere appieno il quartiere, noi che siamo stati abituati a spostarsi in giro per la città, a inseguire tante piccole realtà composte da gruppetti ristrettissimi di amici sparsi per Roma, una realtà che non ci ha mai fatto sentire parte integrante di un vero gruppo di amici.
Ci siamo ritrovati entrambi ad invidiare quei maxi gruppi di amici che escono usualmente, decidono alla svelta dove andare senza che nessuno se la prenda a male, cambiano spesso i posti che frequentano accontentando ogni volta qualcuno e conoscendo di conseguenza tanti posti nuovi ad ogni uscita.
Forse è quella la normalità, chissà, tant'è però che io sta situazione non l'ho mai vissuta, e, ripeto, penso di non essere l'unico.
E stasera ho visto con un altro occhio quella panchina in piazza Don Bosco, quel viale così caratteristico di quello che è il mio quartiere, quell'aria un po' umida un po' inquinata che la potresti riconoscere e ti ricorderebbe la tua zona anche tra cent'anni.
Ieri sera ero a Capalbio con Marika, sulla torre, ad osservare il cielo stellato, e a scrutare le file di luci dei paesini sulla costa, ad ammirare i campi sulle colline illuminate dalla luna. E stasera a passeggiare lungo questo viale se vogliamo mal tenuto, trascurato. Ma si stava bene, era diverso, certo, ma si stava bene lo stesso.
E allora mi chiedo, dov'è la bellezza di un posto? dov'è la felicità, anche intesa come istantanea?
Dentro di noi, mi dico, solo dentro di noi.
E' nascosta dietro al modo in cui viviamo i momenti, nei profumi e nelle puzze che respiriamo, nei palazzi o nelle colline che vediamo, nella luna o nei lampioni che scaldano le nostre serate.

Ps. un grazie a Giulia che mi ha spronato a scrivere di nuovo su questo blog, anche se probabilmente domani mi sveglierò un po' più assonnato del solito...
Pps. un grazie alla panchina di piazza Don Bosco, sede di lunghe sedute terapeuitiche in compagnia di un'amica che mi ascolta e che sta come me se non peggio (.....scherzo.....)